La tradizione e alcune antiche fonti vogliano che i coniugi Martino de’ Buglioni e Maria Taveira, nella città di Lisbona, il 15 agosto del 1190, diedero alla luce il loro primogenito, cui al fonte battesimale posero nome Fernando. Nome di origine germanica, che etimologicamente significa “audace, coraggioso nella pace”. Della sua infanzia non si conosce nulla di certo. Come data di nascita viene riportata l’anno 1195; tuttavia, per ragioni indirette, ossia per la ratio studiorum del tempo, e per l’età canonica richiesta per ricevere l’ordine sacro, fissata intorno ai 30 anni dal diritto canonico dell’epoca, dev’essere anticipata almeno al 1190. Poiché la residenza della nobile famiglia era nei pressi della cattedrale di Lisbona, è logico pensare che abbia avuto la prima formazione culturale e spirituale dai Canonici della stessa cattedrale; e abbia seguito anche la carriera delle armi, secondo la tradizione della famiglia e della nobiltà del tempo Difficile precisare l’occasione che abbia orientato il giovane Fernando alla scelta della vita religiosa. Nelle allegre comitive giovanili, si possono trovare compagni predisposti sia alla vita religiosa che a quella delle armi, come anche si possono sperimentare situazioni di mediocrità morale, di superficialità e di corruzione sociale; di facili amori e amorose delusioni. Tutti elementi che hanno potuto orientare Fernando, alla sua maggiore età dei 18 anni, a fare qualche scelta di esperienza personale. Come di fatto, è avvenuto tra i Canonici Regolari di Sant’Agostino, e così entrò nel monastero di San Vincenzo di Fuori, ossia ubicato fuori le mura della sua città nativa.
Tra gli agostiniani
A San Vicenzo di Fuori dimorò per circa due anni, come prova esperienziale della nuova scelta di vita, dedicata alla preghiera, allo studio e al ministero apostolico. Infastidito, però, dalle continue visite degli amici, con i quali più nulla aveva a che spartire, chiese e ottenne di trasferirsi altrove, sempre all’interno dell’Ordine, per completare la sua formazione al sacerdozio. Fernando affrontò così il suo primo grande viaggio, di circa 230 chilometri, quanti separavano Lisbona dal grande convento di Santa Cruz, in Coimbra, allora capitale del Portogallo. Il nuovo ambiente religioso era formato da una numerosa comunità di circa 70 religiosi. Il corso di studi durava almeno 8 anni. E sono stati gli anni più importanti e delicati per la formazione intellettuale e spirituale di Fernando, il quale, poteva fare affidamento non solo su valenti maestri, ma anche su una ricca e aggiornata biblioteca conventuale. Fernando si dedicò completamente allo studio delle scienze umane, teologiche e bibliche. Impegno che gli servì anche per estraniarsi dalle tante e difficili tensioni, che attraversava la comunità religiosa. Gli anni trascorsi a Coimbra lasciarono una profonda traccia nella sua personalità, che, già per indole, era incline alla solitudine e al silenzio interiore. Per libera scelta, divenne un uomo privo di ambizioni sociali e restio a ogni ostentazione ed esibizione di sé e delle sue doti: diffidente delle polemiche e indifferente alle esteriorità di qualunque tipo. Dagli studi di Coimbra, uscì un uomo maturo ed esperto in ogni campo dello scibile umano e teologico, sostanziato di Bibbia e di tradizione patristica.
Ferdinando sacerdote
A Coimbra, Fernando ricevette l’ordine presbiteriale, che gli fu conferito nella stessa chiesa di Santa Cruz, probabilmente nel 1220, all’età circa 30 anni, secondo le norme ecclesiastiche dell’epoca. Essendo ben versato nelle Sacre Scritture e nella predicazione, gli si prospettava una buona carriera all’interno dell’Ordine. Purtroppo, due avvenimenti contribuirono a scrivere una storia diversa per il neo sacerdote agostiniano don Fernando: le difficoltà interne alla comunità e l’incontro con il francescanesimo.
Difficoltà in comunità
Al re Alfonso I succedette, sul trono del Portogallo, il figlio Sancho I, e, alla sua morte (1211), il nipote Alfonso II. Mentre Alfonso I era un re devoto e rispettoso del potere religioso; i suoi successori, invece, si intromisero nelle decisioni ecclesiastiche a vari livelli decisionali, finanche negli affari interni al monastero di Santa Cruz. Alfonso II nominò, come “priore” del locale convento, un religioso di sua fiducia, indipendentemente dagli effettivi interessi spirituali del monastero, e anche dalla scarsa capacità gestionale del relativo patrimonio. In breve tempo, le sostanze del ricchissimo monastero furono completamente sperperate, a causa di uno stile di vita non sempre coerente con lo stato religioso. A poco a poco, perciò, la comunità monastica finì per spaccarsi in due correnti: da una parte coloro che sostenevano il nuovo priore; e dall’altra coloro che desideravano condurre una vita sobria e dedita alla contemplazione e allo studio. Tra questi ultimi, si schierò anche il giovane don Fernando.
L’incontro con il francescanesimo
Nel 1219 Francesco d’Assisi approntò una spedizione missionaria alla volta del Marocco, con l’intento di convertire i musulmani d’Africa. I membri della spedizione, tre sacerdoti - Berardo, Pietro ed Ottone - e due fratelli laici - Adiuto e Accursio - transitarono anche da Coimbra. Non è certo se Don Fernando abbia conosciuto personalmente il gruppetto di questi francescani approdati in terra lusitana. Certo, ne sentì parlare, e ne subì il fascino. Dapprima, essi si portarono a Siviglia, in Spagna, dove iniziarono a predicare la fede di Cristo nelle moschee. Vennero malmenati, fatti prigionieri e condotti davanti al sultano Miramolino, e, in seguito, trasferiti in Marocco con l’ordine di non predicare più in nome di Cristo. Nonostante questo divieto, essi continuarono a predicare il Vangelo nelle loro moschee, e, per questo, furono di nuovo imprigionati e sottoposti più volte alla fustigazione. Noncuranti del pericolo, sfidarono le autorità religiose del luogo e anche la suscettibilità religiosa del popolo e, ben presto, il 16 gennaio 1220, vennero decapitati e i loro corpi furono barbaramente trucidati ed esposti all’aperto, in pasto agli uccelli. La Provvidenza ha voluto, però, che i loro resti mortali venissero recuperati, custoditi e racchiusi in due cofani d’argento e portati dall’Infante Pedro e dal suo seguito fino a Ceuta, da qui trasportati ad Algesiras, indi a Siviglia e finalmente traslati a Coimbra, dove furono collocati nella stessa chiesa agostiniana di Santa Cruz, nella quale tuttora sono custoditi e venerati. Tutto questo contribuì, da un lato, a porre il movimento francescano al centro dell’attenzione del popolo portoghese e, dall’altro, ad orientare la decisione di don Fernando ad entrare nell’Ordine francescano.
Frate Antonio
Nel settembre 1220, don Fernando lasciò le bianche vesti lanose degli agostiniani, per rivestirsi della grezza tunica di bigello e un cordiglio ai fianchi dei francescani. Per l’occasione, abbandonò anche il nome di battesimo per assumere quello di “Antonio”, in onore dell’eremita egiziano titolare del romitorio di Santo Antonio de Olivares, presso cui vivevano i francescani. Tuttavia, è simpatico ricordare che il cambio del nome in “Antonio”, nel suo etimo etrusco, conserva lo stesso significato di Fernando: “coraggioso, inestimabile che combatte per la pace”. E don Fernando lo sapeva bene! Dopo un breve periodo di studio della regola francescana, frate Antonio parte alla volta del Marocco. L’itinerario da lui seguito, per via terra e via mare, è sconosciuto. Molto probabilmente, insieme a qualche confratello, sarà arrivato nel territorio del sultano Miramolino, e ospitato in casa di qualche cristiano, ivi residente per ragioni di commercio. Frate Antonio non poté dare corso al suo progetto di predicazione, perché fortemente condizionato da una malattia tropicale, forse, la malaria, provocata certamente da una vita di penitenza e dalle scarse norme d’igiene. Male che lo accompagnerà per tutta la vita. Per recuperare la salute, decise di ritornare in patria, senza però abbandonare l’ideale missionario e neppure il suo tacito desiderio di martirio. Fu costretto a lasciare il Marocco, per riprendere la via del ritorno. Ma, a causa di una tempesta, la nave venne trascinata sulle coste della Sicilia, nei pressi di Milazzo (Messina). I due Frati furono soccorsi da alcuni pescatori, e portati nel vicino convento francescano della zona. Qui, frate Antonio apprese che, in occasione della Pentecoste, Francesco aveva convocato tutti i suoi frati per il Capitolo Generale, da celebrarsi in Assisi, dal 30 maggio all’8 giugno del 1221. Così, nella primavera del 1221, frate Antonio insieme ai frati di Messina cominciarono a risalire l’Italia a piedi, per raggiungere Assisi. Frate Antonio era uno sconosciuto fraticello straniero, giovane e senza incarichi di governo, fisicamente provato. La sua convalescenza siciliana durò circa due mesi. Ad Assisi, rimase ugualmente sconosciuto a tutti, perché entrato solo da pochi mesi nell’Ordine; passò i nove giorni dell’adunanza appartato e solingo, immerso nell’osservazione e nella riflessione. Era uno dei tanti, nulla aveva che lo distinguesse. Al momento del commiato non fu preso in considerazione da nessuno dei “ministri”. Quando furono partiti quasi tutti per le rispettive residenze, frate Antonio fu notato da frate Graziano, ministro provinciale della Romagna. Saputo che il giovane frate era anche sacerdote, lo pregò di seguirlo.
Eremita a Montepaolo
In compagnia di fra Graziano da Bagnacavallo e di altri confratelli romagnoli, frate Antonio arrivò a Montepaolo (Forlì) nel giugno 1221. Le giornate nell’eremo trascorrevano in preghiera, mediazione, lavoro e umili servizi. Durante questo periodo, frate Antonio poté confrontare meno la dottrina che l’esperienza della sua nuova vocazione francescana, approfondire l’esperienza missionaria bruscamente interrotta, rinvigorire l’impegno ascetico, affinarsi nella contemplazione, esercitarsi nel nuovo carisma. Data la visione prevalentemente sacrale e di prestigio, in cui era guardata la figura del sacerdote, i confratelli trattavano frate Antonio con grande venerazione e profondo rispetto e sincera stima, perché spezzava loro il Pane celeste. Un giorno, avendo visto che uno dei compagni aveva trasformato una grotta in una cella solitaria, frate Antonio gli chiese con insistenza che la cedesse a lui. Il buon confratello accondiscese all’appassionato desiderio del giovane sacerdote. Così, frate Antonio si ritirava spesso in tale grotta, per gustare la presenza di Dio nella contemplazione solitaria.
L’ora della chiamata
Nel settembre 1222, si tenevano a Forlì le ordinazioni sacerdotali di religiosi domenicani e francescani. Prima che il drappello degli ordinandi si recasse nella cattedrale cittadina per ricevere gli ordini sacri dal vescovo Alberto, si era soliti rivolgere un discorso esortativo ai candidati e a tutti gli ospiti. Tra coloro che furono interpellati a tale compito, nessuno volle accettare la delicata responsabilità: né domenicani né francescani. Intanto, il momento della cerimonia sacra stava per cominciare, e tutti ricusarono d’improvvisare l’esortazione di circostanza. Il superiore di Montepaolo, che conosceva bene le doti di frate Antonio, lo pregò di prendere la parola. Così, frate Antonio ebbe l’occasione di rivelare la sua profonda cultura biblica e la salda dottrina teologica con la nuova spiritualità. Commozione, esultanza e, soprattutto, stupore e ammirazione invase l’intero uditorio, che osannava al Signore, per il dono manifestato. La sacra ordinazione si svolse con grande gioia; e gli occhi di molti furono captati dalla rivelazione del neo predicatore.
Antonio predicatore
Dopo l’esperienza rivelativa di Forlì, iniziò per frate Antonio la nuova missione di predicatore. Parlava con la gente, ne condivideva l’esistenza umile e tormentata, alternando l’impegno della catechesi con l’opera pacificatrice; insegnava la scienza sacra ai confratelli e attendeva alle confessioni, si confrontava personalmente o in pubblico con i sostenitori di eresie. La Romagna, all’epoca, era una regione funestata da una guerriglia civile endemica: le fazioni, maggiori e minori, avvelenavano le città e i clan familiari, disgregando le strutture comunali e seminando dovunque sospetti, congiure, colpi di mano, vendette. Non bastava questa situazione civile, ma anche sul piano religioso si pativa la calamità delle sette, prima fra tutte, nelle sue diverse ramificazioni, quella dei Catari. La Chiesa reagiva scarsamente e male, a causa della sua poco credibilità esemplativa e per la mediocrità della forza dottrinale e spirituale dei suoi figli. Buon gioco avevano dunque gli eretici che diffondevano teorie distorte e dubbi pericolosi. Proprio a Rimini ebbe luogo l’episodio della mula. Tenuta a digiuno per tre giorni, la mula andò verso l’Eucaristia presentata nell’ostensorio da frate Antonio e non verso la fresca biada offerta dall’eretico, il quale poi si convertì.
“Antonio, mio vescovo”
Francesco d’Assisi voleva che i suoi frati si dedicassero, con prudenza, allo studio della teologia. Ecco, come “ordinò” a frate Antonio di insegnarla: “Placet mihi quod sacram theologiam legas fratribus, dummodo inter huius studium orationis et devotionis spiritum non estinguas, sicut in regula continetur”: “Approvo che tu insegni sacra teologia ai fratelli, purché in questo studio tu non spenga lo spirito di orazione e devozione, come è stabilito nella Regola” (in K. Esser, Gli scritti di S. Francesco d’Assisi, Padova 1982, p. 183). In questo testo, Raoul Manselli scorge un valore normativo e un “significato essenziale per tutta la storia dell’Ordine” (San Francesco, Roma 1980, pp. 280-288), perché esprime il fondamento della prima “ratio studiorum del francescano” (G. Lauriola, Introduzione a Francesco d’Assisi, Noci 1986, p. 146).
Il periodo padovano
A Padova, frate Antonio fece un paio di soggiorni ravvicinati relativamente brevi: il primo, fra il 1229 e il 1230; il secondo, fra il 1230 e il 1231. Durante quest’ultimo periodo, sorella morte lo chiamò precocemente. Nella sua patria di elezione, frate Antonio non trascorse che appena un anno, sommando i due momenti della sua permanenza. Padova gli servì come scriptorium dei suoi scritti, perché trovò, forse, una ricca biblioteca e dei validi collaboratori nella stesura dei testi. I Sermones di frate Antonio vanno considerati come l’opera letteraria di carattere religioso più notevole, compilata in Padova durante l’epoca medievale. Frate Antonio aveva un debole per i centri culturali. Difatti, come prima aveva prediletto le università di Bologna, Montpellier, Tolosa, Vercelli, così privilegiò Padova per la sua università. Dire università era soprattutto sinonimo di concentrazione di elementi giovanili. E frate Antonio era un esperto “pescatore di giovani”.
La morte
Nella tarda primavera del 1231, frate Antonio fu colto da malore. Deposto su un carro trainato da buoi venne trasportato dall’eremo di Camposampiero a Padova, dove aveva chiesto di poter morire. Giunto però all’Arcella, un borgo della periferia della città, la morte lo colse. Spirò mormorando: “Vedo il mio Signore”. Era il 13 giugno. Aveva 41 anni! Venne sepolto a Padova, nella chiesetta di santa Maria Mater Domini, il rifugio spirituale del Santo nei periodi di intensa attività apostolica. Prima di un anno dalla morte, la fama dei tanti prodigi compiuti, convinse Gregorio IX a bruciare le tappe del processo canonico e a proclamarlo Santo, il 30 maggio 1232, a Spoleto.
Con una foto di un volto di S. Antonio, foto di Padova, foto di Lisbona e Coimbra se ci sono.